Ricca e interessante la rassegna Leggere contaminazioni alla Casa Orrù di San Raimondo a Gesturi (CA), che da questo fine settimana è entrata nel circuito nazionali dei Presìdi del Libro. Dispiace che la stampa si sia pressoché disinteressata. A ulteriore conferma del fatto che chi dovrebbe segnalare e rivelare fermenti e iniziative sulle pagine culturali ha spesso antenne più corte e più lente dei lettori, degli appassionati, della società viva che arriva quasi sempre per prima a far scoperte.
Alberto Capitta, autore di “Creaturine” (Il Maestrale / Frassinelli)fra Maria Loi (voce recitante) e me che ho avuto l’onore di presentarlo.
Il pubblico.
Una foto ad alta densità creativa: Gianni Marilotti, Alberto Capitta e Giorgio Todde.
Senio Dattena (voce recitante) Anna Cristina Serra e Giuseppe Pili, autore de “Il ventre della sposa bambina” (Iris)
Giulio Angioni, Giorgio Todde “E quale amor non cambia” (Frassinelli) e Rita Atzeri
Fiorella Ferruzzi presenta Matteo Bortolotti “Questo è il mio sangue” (Mondadori – Colorado noir)
O Pa’, a proposito della stampa latitante, quando ero piccolo e nero pensavo/credevo che “la stampa” fosse il giornalista dei film americani che va a caccia di notizie ovunque spuntino e si sforza di riferirle nel modo più obiettivo possibile.
Perdendo i dentini ho capito alcune cosette. Ho capito, ad esempio, che quando la situazione economica di un paese non è florida e la disoccupazione incalza, sono destinate a imperversare strane figure volte a condizionare una certa fascia di lettori medio-acculturati.
Queste amene figure sono i giornalisti di fatti culturali, lontani – ahimé – dallo stereotipo del giornalista dei film americani.
Facciamo un po’ di etologia.
1) Il giornalista culturale non ha altra missione se non quella di gonfiare il proprio curriculum, per cui tutte le sue azioni sono finalizzate a ciò; a tal proposito non fa mai – e sottolineo MAI – niente che non abbia un ritorno di qualsiasi tipo per sé medesimo. Quando parla di cose che non lo interessano direttamente significa che ha delle scadenze improrogabili;
2) Il giornalista culturale parla solo di persone che possono servirgli e poi ci tiene a farglielo sapere, così da creare un vincolo di credito, pensando – per proprietà transitiva – che tutti gli esseri umani siano motivati dall’ardente desiderio di essere visibili e quindi di aver reso col proprio articolo un enorme favore gratuito;
3) Il giornalista culturale, piuttosto che parlare di persone che non sono segnate sul libro dei compagni di merende s’inventa una notizia qualsiasi, anche la più assurda;
4) Il giornalista culturale piuttosto che fare il giornalista avrebbe voluto fare un mestiere più creativo e nobilitante e gli secca moltissimo parlare di chi fa quello che gli piace fare e se la cava a buon mercato;
5) Il giornalista culturale ha un suo giudizio morale ed estetico che è molto, molto più importante del giudizio dei suoi lettori, per cui lo previene, lo indirizza e lo prevarica, incensando o censurando a piacimento. Questo gli dà una piacevole sensazione di potere, che lo ripaga di tutte le frustrazioni subite.
Per cui, che la stampa ci fosse o non ci fosse, a mio parere è un fatto del tutto inessenziale.
Sia chiaro, niente contro i giornalisti culturali, eh.