Che c’entra il mio shopping in occidente con la desertificazione della Mongolia interna?

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Traduco dal numero Gennaio/Febbraio del periodico di San Francisco Mother Jones uno stralcio dell’articolo dal titolo “The Last Empire” di Jacques Leslie. L’ultimo impero. Il problema dell’inquinamento della Cina diventa globale.
http://www.motherjones.com/news/feature/2008/01/the-last-empire.html
Leggete: scoprirete quanto sia immorale, addirittura criminale acquistare parquet in legno merbau proveniente dal sud est asiatico, quanto sia irresponsabile acquistare cachmere di origine cinese, quanto sia dubbio, dal punto di vista del consumo critico, acquistare prodotti in legno Ikea.

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Diversamente da quanto può sembrare, parte della colpa della desertificazione della Mongolia Interna sta negli zoccoli delle capre.

Nel 1981 un funzionario della provincia cinese della Mongolia Interna fondò una fabbrica di maglioni di cashmere e diede inizio al processo che trasformò il cashmere da prodotto internazionale di lusso ad articolo di massa.

Il numero delle capre nella Mongolia Interna balza dai 2,4 milioni del 1949 ai 25,8 milioni del 2004.

La produzione cinese fa abbassare il costo dei pullover in cashmere di tre quarti, addirittura a 20 $.

Conseguentemente gli americani nel 2005 acquistano 10,5 milioni di pullover in cashmere cinesi, un incremento pari a quindici volte tanto in un decennio.

Ma le capre sono voraci di foraggio e i loro zoccoli affilati dissodano il manto erboso. Troppo tardi le autorità cinesi hanno limitato il pascolo a un terzo della provincia

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L’affacciarsi della Cina come potenza economica dominante è un evento epocale, significativo quanto l’ascesa degli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale. Per molti versi è sorprendente, se si considera l’ideologia che lo ha generato, il rigetto dei valori maoisti a favore di quelli apertamente capitalisti a partire dalla fine degli anni ’70.
Sorprende poi la più massiccia e rapida redistribuzione delle risorse della terra nella storia dell’uomo. In appena due decenni e mezzo la Cina si è svegliata dalla stagnazione maoista per diventare il più grande produttore del pianeta. Fra le 193 nazioni della terra, ora è prima nella produzione di carbone, acciaio, cemento e 10 tipi di metallo; produce metà delle macchine fotografiche del mondo e un terzo dei propri apparecchi tv, ed entro il 2015 potrebbe produrre la maggior parte delle automobili. Vanta fabbriche capaci di ospitare 200mila operai e città che fabbricano il 60% dei bottoni del mondo, metà delle cravatte in seta e metà dei fuochi d’artificio.
La Cina è divenuta pure un consumatore famelico. Il suo appetito per le materie prime ha fatto salire i prezzi internazionali dei beni e delle tariffe di trasporto mentre la sua classe media, che si calcola crescerà dai poco meno di 100 milioni di persone di oggi ai 700 milioni entro il 2020, sta conoscendo le gratificazioni del consumismo. La Cina è con largo margine il maggiore importatore di una gran quantità di merci, fra cui ferro non lavorato, acciaio, rame, stagno, zinco, alluminio e nickel. È il più grande consumatore di carbone, di frigoriferi, di cereali, cellulari, fertilizzanti e televisori. Non solo è la prima al mondo per consumo di carbone, con i 2,5 milioni di tonnellate nel 2006, ma ne consuma più delle successive tre nazioni in classifica messe insieme: Stati Uniti, Russia, India.

L’aricolo continua nei commenti…

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5 Responses to Che c’entra il mio shopping in occidente con la desertificazione della Mongolia interna?

  1. paolo dicono:

    La Cina utilizza la metà dell’acciaio e del cemento del mondo e probabilmente costruirà la metà dei nuovi edifici del pianeta nel prossimo decennio. Così vorace l’appetito cinese per le importazioni che quando il paese fu a corto di ferraglia all’inizio del 2004, i coperchi dei tombini scomparvero dalle città di tutto il mondo (solo a Chicago ne sparirono 150 in un mese). E i cinesi non sono solo grandi consumatori, ma pure esigenti, come dimostra la presenza a Pechino delle concessionarie di tutte le marche di auto di lusso del mondo. Le vendite di Porsche, Ferrari e Maserati sono prosperate, nonostante i loro proprietari non abbiano l’opportunità di saggiarne le prestazioni nelle congestionate strade cittadine.
    Il punto è che la Cina non è solo il più grande produttore al mondo ma anche il suo maggior saccheggiatore, in una misura altrettanto monumentale quanto la sua espansione economica. L’ecosistema cinese era già pesantemente compromesso prima dell’ascesa al potere del partito comunista nel 1949, e Mao riuscì ad accelerarne la distruzione. In un sol colpo lanciò la campagna “fornaci nel cortile” per cui qualcosa come 90 milioni di contadini misero su fonderie di acciaio di base; per alimentare le fornaci gli abitanti delle aree rurali tagliarono un decimo degli alberi della Cina in pochi mesi. Alla fine l’acciaio prodotto si dimostrò inutilizzabile. Con un altro colpo Mao perpetrò la campagna “Eliminazione delle quattro pesti”, provocando lo sterminio di milioni di passeri e la conseguente esplosione della popolazione delle locuste. La distruzione delle foreste portò all’erosione ed all’estendersi dei deserti e la proliferazione delle cavallette determinò il collasso della produzione nazionale di granaglie. Il risultato fu la più grande carestia, nella quale perirono dai 30 ai 50 milioni di cinesi.
    Tuttavia la devastazione ecologica dell’era di Mao impallidisce a confronto con quella dell’attuale industrializzazione. Un quarto del paese è ora deserto. Più di ¾ delle sue foreste sono scomparse. Le piogge acide cadono su un terzo del territorio cinese, contaminando il terreno, l’acqua e il cibo. L’uso eccessivo delle falde acquifere ha causato cedimenti in almeno 96 città, provocando una perdita di 12,9 miliardi di dollari nella sola Shanghai. Ogni anno fuochi sotterranei incontrollati, talvolta scaturiti dai fulmini o da incidenti in miniera, consumano 200 milioni di tonnellate di carbone, contribuendo massicciamente al riscaldamento globale. Un miasma di piombo, mercurio, anidride solforosa ed altri prodotti della combustione del carbone e dei gas di scarico delle macchine volteggiano sulla maggior parte delle città cinesi; delle 20 città più inquinate del mondo, 16 sono cinesi.

    Il governo stima che 400mila persone muoiano prematuramente di malattie respiratorie ogni anno e i costi della salute per le morti premature e le invalidità legate all’inquinamento atmosferico sono arrivano fino al 4% del pil del Paese. Quattro quinti in lunghezza dei fiumi cinesi sono troppo inquinati per potervi pescare. Metà della popolazione (circa 600-700 milioni di persone) beve acqua contaminata da rifiuti umani ed animali. Nel fiume più lungo dell’Asia, lo Yangtze, la nazione scarica annualmente un miliardo di tonnellate di liquami non trattati; alcuni scienziati temono che il fiume possa morire nell’arco di qualche anno. Prosciugato dalle città e dalle fabbriche del nord della Cina, il Fiume Giallo, le cui catastrofiche esondazioni gli hanno fatto guadagnare la fama di sito naturale più dannoso al mondo, ora scorre verso la sua foce lentamente, quando scorre. La Cina genera un terzo dell’immondizia del pianeta, la maggior parte della quale non viene trattata. Inoltre circa il 70% dei computer e delle strumentazioni elettroniche scartati nel mondo finisce in Cina, dove viene recuperata per le parti riutilizzabili e quindi abbandonata, inquinando il suolo e le falde acquifere con metalli tossici.

    Benché sotto il controllo del governo e pesantemente censurato, il quotidiano in lingua inglese China Daily ha riportato che nel 2005 i problemi dell’inquinamento hanno generato 50mila cause e proteste in tutta la Cina. Se resta incontrollata, la devastazione non solo metterà bruscamente fine alla crescita economica della Cina, ma, insieme ad altre nazioni “sbadate” dal punto di vista ambientale (in particolare Stati Uniti, India e Brasile), causerà un disastro mortale nelle società e negli ecosistemi di tutto il pianeta.

    Il processo è già in corso. Durante l’era di Mao, l’Esercito di Liberazione del Popolo sparava ritualmente granate sull’isola di Quemoy controllata da Taiwan; ora invece la Cina abbandona detriti e rifiuti che galleggiano sui due chilometri del canale e approdano sulle spiagge di Quemoy al ritmo di 800 tonnellate all’anno. Le piogge acide causate dalle emissioni di anidride solforosa della Cina danneggiano severamente le foreste e i bacini in Corea e Giappone ed affliggono la qualità dell’aria persino negli Stati Uniti. Ognuno dei più grandi sistemi fluviali della Cina è minacciato da ogni sorta di cataclisma, fra cui inquinamento (Amur), chiusura con dighe (Mekong, Salween) deviazioni del corso (Brahmaputra), scioglimento dei ghiacciai di alimentazione (Mekong, Salween, Brahmaputra). L’aumento dei rifiuti non trattati e dei derivati dell’agricoltura che si scaricano sul Mar Giallo e sul Mare di Cina ha causato la frequente moria di pesci e l’esplosione del fenomeno delle “red-tide” (le maree rosse da microalghe), mentre la pesca intensiva sta danneggiando molte specie dell’oceano. Il crescente gusto cinese per le pellicce e per cibi ed animali esotici sta devastando la popolazione nei paesi vicini di gazzelle, marmotte, volpi, lupi, leopardi delle nevi, camosci, tartarughe, serpenti, aironi, pappagalli, mentre l’appetito cinese per la zuppa di pinna di pescecane sta determinando un drastico declino della popolazione degli squali in tutti gli oceani; secondo uno studio pubblicato nel 2007 su Science, l’assenza negli oceani dei principali predatori sta causando la proliferazione delle mante e delle razze che a loro volta stanno distruggendo le peschiere di capesante lungo la costa orientale americana. La nuova predilezione della Cina per il sushi sta addirittura spodestando il Giappone nel mercato del tonno a pinna blu. L’entusiasmo per la medicina cinese tradizionale, inclusi i presunti afrodisiaci, sta causando ingenti declini nella popolazione di centinaia di specie animali cacciate per i loro organi (fra cui tigri, pangolini, buoi muschiati, cavallucci marini). Alla ricerca di petrolio, legname, oro, rame, cobalto, uranio ed altre risorse naturali, la Cina sta costruendo massicciamente strade, ponti e dighe per tutta l’Africa, spesso infrangendo gli standard internazionali ambientali e sociali. Infine, secondo l’Agenzia Ambientale Olandese, la Cina nel 2006 ha sorpassato gli Stati Uniti come paese che emette più CO2 al mondo.

    Tutto ciò è ben noto fra gli studiosi e gli attivisti che seguono l’attività della Cina sul piano ambientale. Le notizie, tuttavia, non hanno ancora scosso la Cina dalla sua euforia indottale dal denaro. Un aspetto importante è che la crescita del pil del 10% della Cina non tiene conto della devastazione ambientale che il boom ha causato. Nel giugno del 2006 un funzionario del Consiglio di Stato della Cina disse che il danno complessivo all’ambiente (tutto ciò che va dalla perdita del raccolto ai costi sociali della sanità) stava costando il 10% del suo pil: in altre parole, tanto quanto l’intera sua celebrata crescita economica. Tale stima del tasso di danno ambientale coincide con quella di Vaclav Smil, illustre studioso dell’Università di Manitoba (Canada) che si occupa della Cina: ogni anno il danno ambientale si porta via la crescita del pil.

    Per la maggior parte, le ultime foreste naturali rimaste nel pianeta sono formalmente protette dalla legge e da regolamenti, la cui applicazione tuttavia è generalmente inefficace e corrotta. Il problema della deforestazione coincide largamente con quello del taglio illegale e la Cina è il maggiore importatore di legno tagliato illegalmente. Il mercato cinese del legno ha anche aiutato a finanziare conflitti armati condotti da tali pariah internazionali come i Khmer Rossi della Cambogia, il governo militare della Birmania e l’appena deposto regime della Liberia. “La Cina è al primo posto nell’acquisto di legname da molti dei paesi più affetti dal flagello del taglio illegale” riporta l’Eia (Environmental Investigation Agency (EIA): Agenzia di Indagine Ambientale, organizzazione internazionale indipendente) nel 2005. Il più grande fornitore di legname della Cina è la Russia, dove – si stima – la metà di tutto il taglio è illegale.
    In Indonesia il taglio illegale del legname ha raggiunto addirittura la quota dell’80%. Laggiù il cartello dello sfruttamento del legname perpetra quello che l’Eia chiama “forse il più grande e più distruttivo traffico di legna rubata al mondo” dalle foreste della Provincia indonesiana di Papua (che comprende gran parte della metà orientale della Nuova Guinea), spesso passando per la Malesia, dove i documenti dell’esportazione vengono falsificati, verso le fabbriche delle coste centrali e meridionali della Cina. È significativo il dato dell’ingiustizia perpetrata dal taglio illegale di legno: quando gli alberi della foresta tropicale dal legno pregiato chiamato merbau vengono tagliati a Papua, i locali sono pagati 11 $ al metro cubo: una volta che il legname raggiunge la Cina, il loro valore cresce a 240$ al metro cubo; ma al momento che arriva negli Stati Uniti e l’Europa come legno da parquet, tocca i 2.288$ al metro cubo (dati e valori relativi al 2004).
    La maggior parte del profitto finisce nelle mani dei ricchissimi boss del legname che gestiscono il contrabbando a Jakarta, Singapore e Hong Kong. Ricevono supporto dai militari indonesiani e dagli ufficiali di polizia che spesso investono in operazioni di contrabbando loro stessi o vengono corrotti perché non ostacolino il traffico.
    Oltre ai molti altri devastanti effetti (estinzione di parecchie specie animali, proliferazione di malattie e di povertà), la deforestazione aggrava pesantemente il cambiamento climatico. Una volta tagliati, gli alberi non solo smettono di assorbire anidride carbonica, ma rilasciano quella che hanno sequestrato (o lentamente o rapidamente, come nel caso del legno combusto o degli incendi). Pertanto la deforestazione grava per circa il 18% nelle emissioni di gas serra del pianeta: un tasso più alto di quello causato dal settore dei trasporti, stimato al 14%. Lo sbalorditivo tasso di deforestazione nella povera, non-industrializzata Indonesia la colloca la al terzo posto fra i paesi più inquinanti del mondo, dopo gli Stati Uniti e la Cina.

    Mentre l’Indonesia e le altre nazioni fornitrici devono sopportare gli effetti della deforestazione, i paesi che ne beneficiano si comportano come se il problema non fosse causato da loro. Ecco che la Cina ha firmato impegni sia multilaterali che bilaterali per fermare le importazioni del legno illegale ma poi non riesce a metterli in atto. Così come “l’iniziativa del presidente contro il taglio illegale del legno” di George Bush annunciata con molta fanfara nel luglio del 2003, non ha neppure proposto la messa al bando delle importazioni americane del legno tagliato illegalmente, ma piuttosto si è concentrato ad aiutare i paesi produttori a combattere i tagli illegali.
    Mettere fine agli acquisti americani ed europei di prodotti provenienti da legno tagliato illegalmente e distribuiti da compagnie come Ikea, Home Depot e Armstrong (vedi SCHEDA) ridurrebbe di certo la distruzione di foreste tropicali, dato che metà del legno tropicale che entra in Cina viene riesportato come prodotto finito. Ma anche così, circa il 90 % di tutti i prodotti in legno della manifattura cinese vengono consumati nella stessa Cina. Ciò è allarmante, poiché il consumo pro-capite dei prodotti in legno è ancora molto al di sotto di quello delle nazioni più sviluppate, ed è verosimile che cresca col crescere della classe media. Il consumo pro-capite di carta, per esempio, in Cina è oggi solo un ottavo rispetto a quello degli Stati Uniti; se raggiunge i valori americani, i fornitori di pasta di legno dovranno raddoppiare l’attuale taglio annuale di legname. Come argomenta Greenpeace nel rapporto del 2006 intitolato “Spartirsi il biasimo” “Le foreste del pianeta non possono sostenere né il livello di consumo dei paesi sviluppati, né l’aspirazione di raggiungere livelli analoghi da parte dei paesi in via di sviluppo”.

    SCHEDA

    Le esportazioni di legname della Cina, il 40% circa delle quali vanno verso gli Stati Uniti, superano i 17 miliardi di dollari. Alcune aziende di arredamenti e di forniture per l’edilizia hanno in teoria aderito alla disciplina di acquistare solo legno certificato dal Consiglio per la tutela delle foreste (FSC) che garantisce la sostenibilità e la legalità del taglio, tuttavia la reale applicazione ed efficacia di tale misura è molto dubbia.
    La catena Ikea compra un quarto dello stock delle sue forniture dalla Cina, che importa legno dalla Russia. Una recente inchiesta del Washington Post ha rilevato che nonostante la metà del legno proveniente dalla Russia sia ottenuto illegalmente, l’Ikea impiega appena due forestali in Cina e tre in Russia per tracciare l’origine del suo legno. Un dirigente dell’azienda ha ufficialmente riconosciuto che le spese per garantire la legalità del proprio legno sono proibitive. L’Ikea si prefigge come obiettivo che per il 2009 almeno il 30% del suo legno sarà certificato. Oggi solo il 4% del legno adoperato nelle sue fabbriche cinesi supera il test.
    Catena Home Depot: solo il 5 percento dei suoi articoli in legno sono prodotti con legname certificato.
    Armstrong Floor Products: vende il minacciato merbau Indonesiano, e rifiuta di aderire al programma di certificazione.
    —J.L.

  2. Nico dicono:

    Bell’articolo. interessante, ma tanto la gente quando fa shopping non pensa a tutte queste cose

  3. Paolo dicono:

    E’ proprio quello il punto, o meglio il problema: non farsi domande, non pensare quando facciamo un gesto all’apparenza semplice come acquistare un prodotto.

  4. sergio dicono:

    Una nuova indagine dell’Environmental Investigation Agency (EIA) e dell’associazione indonesiana Telapak ha provato il dilagante contrabbando di merbau:
    http://www.salvaleforeste.it/201008101218/unindagine-nel-traffico-illegale-di-merbau-indonesiano.html
    Il Merbau è un legno duro impiegato prevalentemente per fabbricare parquet di qualità, ma anche mobili e porte. In Indonesia, il merbau è quasi estinto, se non nella provincia di Papua nella parte orientale del paese. Le foreste di Papua rappresentano l’ultimo ultimo significativo tratto di foreste tropicali intatte foresta nella regione del Pacifico. Circa un quarto delle foreste di Papua sono state distrutte nel corso degli ultimi 12 anni.

  5. paolo dicono:

    Grazie Sergio del commento e del link

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