Per esempio, il nome: Antonio Chessa era conosciuto come Antonio Chessa. Solo e semplicemente col nome e cognome anche a Nuoro, che voleva dire che né a lui né, soprattutto, a nessuno dei suoi progenitori era stato mai assegnato un nomignolo, un soprannome di quelli che vengono ereditati da tutta una discendenza e che identificano il ceppo familiare meglio del cognome. Forse perché di Chessa nel quartiere di Santu Predu c’erano solo loro, pochi altri in tutta Nuoro, o più probabilmente perché nessuno della famiglia si era mai reso riconoscibile per una qualche singolarità, un vizio inconsueto o una caratteristica fisica. A dire il vero il nonno di Antonio, che si chiamava Antonio pure lui, aveva un passo singolare, appena claudicante, ma in una misura quasi impercettibile, e la stessa andatura aveva Antonio. Quel passo che un tempo si era affaticato solitario su sentieri di campagna, ora attraversava crocicchi trafficati in una città frettolosa e sbadata. Di fisico asciutto, sguardo remoto, come apparentemente distratto, e con un sorriso ferino che gli scopriva i canini di sopra, Antonio Chessa aveva conservato i tratti di una genìa di Santupredini che erano stati pastori fino alla generazione del nonno. Già il padre e lo zio di Antonio avevano studiato all’università, in continente, ed anche Antonio aveva lasciato Nuoro al termine delle superiori ed ora si stava laureando in Leggi a Cagliari. Ma il contegno austero e frugale e quella riservatezza, o pudore, erano gli stessi di quei Chessa avvezzi al silenzio delle pietre e alla promiscuità con gli animali. Così pure certe espressioni del viso del nonno rivivevano in Antonio, come l’aggrottare delle sopracciglia e il protrudere delle labbra quand’era concentrato in qualche attività manuale, e pure le inclinazioni. Per esempio anche Antonio cantava a tenore, nel suo gruppo faceva sa contra, come il nonno, e come lui ci sapeva fare con le parole e con le rime, componeva strofe di muttos e ricordava a memoria moltissime poesie sarde.
E gli capitava talvolta, magari al volante o allo specchio, di incantarsi nell’esercizio solitario di ruminare parole, isolarne il suono o inventare nessi che le imparentassero, così, per cercare di redimerle dalla concretezza. Così come si lasciava a volte sedurre dall’idea che a governare gli eventi dell’esistenza fosse un’indecifrabile moltitudine di congiunture. Anche l’atto più banale, come il tossire di uno sconosciuto incrociato per strada poteva essere il risultato di infiniti accadimenti anteriori e a sua volta indizio di insospettate conseguenze. Per esempio nel fogliame di un albero mosso dal vento o in una piega del cuscino si poteva scorgere il nome segreto di Teresa, quello più intimo ed incorporeo.
Ma poi interveniva la logica a ratificare o correggere la suggestione; allora il suo sguardo tornava come appagato, disteso, e le mani, per giustificare la realtà, si impegnavano ad avvitare la caffettiera o a tirar giù la cinghia di una tapparella.
A dire di zia Rosaria, il nonno aveva un’immaginazione altrettanto fervida, più rustica però, legata al vivere campestre, e più forte della memoria. Per esempio, quando gli chiedevano se fossero vere le cose impossibili che riferiva, rispondeva: Non lo so se è così, oppure Non è vero che è successo ma già è vero che me lo sono immaginato, ed erano cose che riguardavano le ragioni di un avvenimento, la volontà delle cose inanimate o certe suggestioni sugli eventi. Ad esempio, il pensiero che la morte accompagnasse la vita tanto da scandirla, e che i lutti facessero parte del quotidiano: Le campane a morto sono come la pioggia, c’è quella col rintocco de sos sennores, quella delle monache o dei bambini, come c’è l’acquazzone violento e la pioggerellina silenziosa. E come un rovescio improvviso era arrivata la sua, una mattina del Millenovecentosessanta, quando nella solitudine dell’ovile appena fuori Nuoro era stato raggiunto da una scarica di pallettoni.
primo capitolo del romanzo “L’ufficio del pietrisco”.
come li vorresti aggiungere i racconti se non come post nella categoria racconti?
ho letto il libro e ho assistito alla presentazione al trittico
mi pare ti accompagnassero dei tenores
bella serata, e bel libro
Grazie a evacarriego!! Sì erano proprio i Gòine -le cui vicende romanzate sono oggetto del libro- ad accompagnarmi nella bella serata del trittico ironico di Nuoro.
evacarriego, bel nome molto letterario, rimanda all’Evaristo Carriego di Borges… ma è un nickname voluto?
claro que sì