INTERVISTA A DAVID RIONDINO

il Giornale di SARDEGNA Giovedì 23 DICEMBRE 2004 pag. 4

“Improvviso il Natale di giorno in giorno”

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nato a Firenze nel 1953
Debutta allo Zelig nel 1975
Nel 1989, con Paolo Rossi, mette in scena “Chiamatemi Kowalski”.
Sempre con Paolo Rossi il suo primo film “Kamikazen”

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David Riondino è artista poliedrico, come dimostra il cofanetto appena uscito per Donzelli “Cantata dei pastori immobili – racconto di un presepe vivente”, che contiene un libro di affabulazioni in prosa e in versi (con disegni di Sergio Staino) e un CD con le musiche di Stefano Bollani. Assente dalla tivù, piatta e “autoreferenziale”, sarà invece a teatro da gennaio in “Don Chisciotte e Sancho Panza” con Dario Vergassola.
Nei giorni scorsi è stato a Sinnai, ospite della rassegna internazionale “Musas e Terras” in veste di poeta improvvisatore.

Musicista, attore di cinema, teatro e tv, artista versatile, c’è una forma espressiva che prediligi?
Diciamo sinteticamente che io me le faccio e me le canto: scrivo delle cose, poi a seconda degli strumenti che ci sono posso fare una canzone o un qualcosa che condivido con altri in altre forme.
Che posto ha per te la poesia improvvisata sia dal punto di vista professionale che come background culturale?
Mi ha sempre impressionato come si possa mettere in rima, rispettando una metrica precisa un contenuto che si vuole esprimere. Mi affascina, mi interessa molto. L’ho sentita sin da piccolo in Toscana e forse ho colto l’eco di una tradizione che era forte e che si è un po’ affievolita. Ma sono un appassionato della materia più che un poeta improvvisatore.
Eppure hai raggiunto la popolarità con un personaggio che improvvisava con disinvoltura.
Sì… le improvvisazioni di Joao Mesquinho, di cui si presumeva io conoscessi tutte le canzoni composte. Erano brani molto corti, molto sintetici. Ma quella era una mascherata. Io invece ho molta stima per quelli che fanno vera improvvisazione. Questa metrica che padroneggiano in modo formidabile. Mi è capitato di recente a L’Avana di provare a far tradurre e mettere in scena in decime l’Otello. Gli raccontai la storia poco prima, rinfrescandogli la memoria, ed hanno messo in poesia la trama dell’Otello. Sono capaci di raccontarti un’intera storia in decime.
Nel mondo ispanoparlante è viva, da noi?
C’è anche in Italia, ma si è un po’ persa. Io non sono certo un poeta improvvisatore vero, ne sono stato casomai un ambasciatore. Oggi comunque c’è un po’ di attenzione in più, questo festival lo dimostra.
La volontà di salvare questa ed altre forme della tradizione può considerarsi, in tempi di globalizzazione, una sorta di salvagente?
In effetti quella cultura è stata combattuta dalla “dealfabetizzazione” operata dalla tivù che impone tempi veloci, che non conosce più né pause né dilatazioni, mentre la poesia improvvisata ha bisogno di spazi molto larghi. Eppure di quella cultura forte, in Toscana o per esempio qui in Sardegna piuttosto che altrove, ne è rimasta l’eco. Di antiglobalizzante c’è senz’altro la riscoperta di forme nelle quali la testimonianza individuale torna ad avere più valore dei messaggi ufficiali. Ecco, il poeta è una persona in carne ed ossa che in quel preciso istante sta tessendo con le parole qualcosa che ti può dare solo lui e che non puoi comprare al supermercato, né altrove. Vedi pure il fenomeno dei festival letterari: c’è un bisogno di assistere ad un avvenimento unico, senza standardizzazioni.
A proposito di standardizzazione, oggi la TV è senz’altro omologante: meglio starne lontani?
Ma la televisione è anche un mezzo molto bello; se ci fosse qui stasera ad esempio potrebbe far vedere volti, voci e suoni di questi grandi poeti a distanze inimmaginabili. Non è di per sé un mezzo pericoloso. Di questi tempi la televisione è un mezzo di propaganda: si è fatta un’epurazione di tutto ciò che non fosse autoreferenziale della televisione stessa. In tivù ormai ci son solo gli “interni”, quelli che in tivù ci vivono. Ma la televisione ha sempre avuto anche altre funzioni, quella di raccontare ciò che accadeva nel Paese e di scovare bravi artisti, bravi improvvisatori, bravi comici. Adesso quella funzione è stata come abolita e viene raccontato solo ciòche viene fatto dagli “interni”.
Perché è stata abolita questa funzione così importante?
Perché qualcuno pensa che il Paese sia solo ciò che si vede in tivù e quindi conquista territori televisivi e decide cosa far vedere. In realtà non è così, il Paese è anche questa rassegna, come mille altre cose interessanti che succedono ovunque. E’ anche l’affermazione elementare che la guerra in Iraq è una guerra stupida contro un popolo che non aveva né armi né antrace, fatta da una lobby di petrolieri. Queste elementari realtà vengono cancellate dal racconto televisivo, si fanno solo spettacoli per i soldati della riserva. Però c’è da considerare che essendo questi tempi di guerra, si applica alla comunicazione qualcosa di simile alla censura bellica, pur con tutte le differenze di una guerra atipica. Ma se ci pensiamo bene noi ora facciamo parte di un’alleanza militare che sta combattendo una guerra. Un dato molto rimosso da tutte le parti, ma di cui sono molto coscienti quelli che fanno la comunicazione.
L’ultimo tuo lavoro include versi, prosa e canzoni. Com’è nato?
Anche lì siamo vicini al genere improvvisativo, almeno per quel che riguarda la musica, realizzata 15 giorni prima dello spettacolo, che fu commissionato poco prima di Natale e realizzato a Natale due anni fa. E’ l’occasione che crea l’evento e questo dimostra l’aspetto artigianale del nostro lavoro. Siamo gente che costruisce pezzi a seconda della richiesta.
PAOLO MACCIONI

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